A 7 anni dalla morte trovo d’attualità quello che scrissi su uno dei presidenti più longevi della storia del calcio italiano, alla guida del Brescia calcio per ben 22 anni.
7 anni fa, l’8 marzo 2016, ci lasciava Gino Corioni, per 20 anni presidente del Brescia calcio. In quell’occasione scrissi per Calcio e Finanza un mio personalissimo ricordo, che non voleva soltanto essere un pezzo per ricordare la sua presidenza, ma una chiave di lettura per interpretare ciò che i presidenti come lui hanno rappresentato per il nostro calcio tra gli anni 80, 90 e 2000.
Gino Corioni fu tra i presidenti più longevi della sua generazione.
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“Mi sono divertito. Il calcio è stata la mia vita e la mia medicina” diceva Gino Corioni. Era ammalato da dieci anni e il calcio lo aiutava a curarsi: così lui stesso sottolineava la sua natura tenace di resistente del calcio.
Per 22 anni presidente del Brescia, prima ancora proprietario del Bologna (portato fino in coppa Uefa con Gigi Maifredi allenatore) e dell’Ospitaletto (preso nel 1967 e salito con lui tra i professionisti) ma anche consigliere del Milan di Giussy Farina. Corioni è morto a 78 anni, ne avrebbe compiuti 79 il 6 giugno prossimo.
Per oltre 20 anni ha guidato il Brescia tra alterne fortune: 5 promozioni e altrettante retrocessioni. 5 come il numero di maglia dell’ultimo Andrea Pirlo a Brescia, anche se il suo marchio di fabbrica furono i numeri 10: il magiaro Lajos Detari a Bologna, il rumeno Gica Hagi a Brescia e poi Roberto Baggio. Senza dimenticare, naturalmente il 28 di Pep Guardiola.
E 5 furono gli anni consecutivi in A del suo Brescia, il cui massimo traguardo fu la finale Intertoto persa contro un Paris Saint Germain lontano parente dell’attuale.
In seguito ne fece altri 5 in Serie B prima dell’ultimo saliscendi.
All’inizio della stagione 2010-2011, suo ultimo anno in A, spiegava: “retrocedere subito sarebbe peggio che non essere mai saliti”.
C’era in quella frase la sintesi estrema del fare calcio in Italia e in un capoluogo di provincia negli anni successivi al mondiale 2006. Anni prima, a Brescia, girava la stupida diceria priva di ogni fondamento logico ed economico, secondo cui Corioni non voleva salire in A per rimanere tra i cadetti, circolata quando la squadra ripetutamente si piazzava in zona playoff continuando (unico caso di quegli anni in serie B) a rilanciare per la promozione.
Con atteggiamento stoico e infine vincente, ancora una volta resistente, nel 2010 ottenne l’ultima promozione. Ma, avvertiva Corioni, “retrocedere subito sarebbe peggio che non essere mai saliti”.
Quella frase dell’estate 2010 fu, come altre volte era accaduto nella sua vita, profetica e anticipatrice di una nuova resistenza necessaria, l’ultima.
Dopo quella retrocessione la squadra rimarrà sotto la sua guida fino al 2013-2014 con il presidente a lamentare: “Dieci anni fa ero esposto anche più di ora, ma solo adesso sembra diventato un problema”.
Si dice che Gino Corioni sia stato l’ultimo dei presidenti di provincia che presero piede tra gli anni ’70 e ’80. Navigando per oltre trent’anni in un calcio radicalmente cambiato, dal Totocalcio alle pay tv.
Solo la nostalgia porta a dire che quello fosse un calcio migliore.
Di certo era un calcio diverso, a conduzione familiare, in cui pochi (come i Pozzo, a Udine) sono riusciti ad emergere ed evolvere. Un calcio da cui altri sono stati travolti ed in cui altri, come Corioni, hanno avuto la capacità di resistere evitando l’onta del fallimento.
Un calcio in cui i presidenti erano, spesso, anche dei grandi direttori sportivi costretti loro malgrado (per indole, disponibilità al rischio economico e inclinazioni umane) a fare i presidenti. Presidenti che “si divertivano”, come ammetteva Corioni.
Questo fu a lungo possibile, almeno fino a che, battezzare i nuovi Buffon e i nuovi Baggio, mutò: da intuizione e divertimento, a stringente necessità commerciale, celebrata e ripetuta a cantilena più dai media che dal campo, fino a ridursi alla dimensione di buffi meme. Tanti piccoli Cerci che ricordano Robben.
Questi presidenti dal calcio traevano gloria e fama. Nelle assemblee confindustriali non erano i più ricchi e nemmeno i più bravi, ma grazie al calcio stavano mediaticamente nella fila dei primi.
Accadeva anche a Corioni all’Aib (la confindustria bresciana) quando era bersaglio delle parentesi sportive di cui Luca Cordero di Montezemolo amava infarcire – spezzandone la solennità – i suoi discorsi da presidente di Confindustria. Diventando in quel momento il più in vista in un consesso che vantava nomi pesantissimi dell’industria italiana ben lontani dalla sua dimensione di bravo imprenditore locale.
Il tutto accadeva poco prima che il calcio, soprattutto a livello nazionale, diventasse talmente preponderante da essere veicolo irrinunciabile della necessaria notorietà di anonime presidenze.
Un calcio di grandi intuizioni e macroscopici errori di valutazione (che la Gialappa’s stigmatizzava nei “Bidoni di periferia”), di plusvalenze che non venivano ancora chiamate così e di squadre “rilevate tecnicamente”.
Era il modo elegante per dire che chi entrava si accollava – con una stretta di mano e qualche firma, o quasi – il deficit pregresso, ma di fatto sollevando “da galantuomini” il presidente precedente dalle proprie responsabilità. Come successe a Brescia nel 1992 quando Corioni rilevò il club.
Era il calcio B2B che si reggeva sul Totocalcio e sul salotto del calciomercato, sugli affari tra presidenti di provincia venditori e presidenti provenienti dalle metropoli e pronti a pagare cash i campioni di periferia (inizialmente giocatori fatti poi via via sempre più giovani e di prospettiva).
Un calcio in cui non si parlava di merchandising (un campo libero in cui si è sempre lasciata libertà d’azione alle curve) e di fatturati, in cui i diritti tv avrebbero fatto la loro comparsa dalla metà degli anni ’90 soppiantando il Totocalcio che rappresentava fin lì il grande ente finanziatore del calcio.
Un calcio in cui non si parlava di impianti di proprietà, in cui Gino Corioni ebbe sin da subito l’intuizione di voler fare uno stadio nuovo per il suo Brescia. Una volontà che si scontrò con la impossibilità economica di farlo in proprio e la necessità di trovare sinergie – industriali e politico istituzionali – rivelatesi nel lungo periodo impossibili da far quadrare.
Da anni chiedeva il sostegno degli imprenditori bresciani alla sua causa. Non lo otterrà mai, non certo per scarse volontà altrui.
Semplicemente perché questa non sarà mai la formula adatta a gestire il calcio dei presidenti, così come si è affermato in Italia. Nei vent’anni non mancarono sporadici tentativi, ma ogni sodalizio fu di di scarsa, laddove non brevissima, rilevanza. E di impossibile convivenza.
La sua storia al Brescia si è chiusa con una eutanasia di fatto: nessuno potrà mai con certezza dire quale è stata la data di chiusura della sua epopea. Forse la stagione 2013-2014, o forse il gennaio-febbraio 2015, momento dell’ingresso operativo nel club di Profida Italia, o a fine dicembre 2015 al momento dell’aumento di capitale.
Un addio composto, nel rifugio familiare, a dimensione del suo calcio. Doveroso. Perchè al di là di ogni giudizio su operazioni, errori e opportunità, con il calcio di Gino Corioni il Brescia ha toccato i migliori risultati della sua storia.