L’imminente pronunciamento della CGUE sulla Superlega è il secondo passaggio storico, per lo sport nell’Unione, dopo la sentenza Bosman del 1995. Torniamo ad allora per capire quanto quel pronunciamento ha cambiato il calcio.
I contenuti di questo articolo furono parte del mio primo intervento al Master in Sport Business de Il Sole 24 Ore.
Tra qualche giorno, il 21 dicembre, la Corte di Giustizia Europea dovrebbe pronunciarsi sul caso Superlega.
Sarà il quarto passaggio storico, per lo sport europeo, in particolare il secondo passaggio chiave che vede in campo la CGUE e quindi riguarda più specificamente l’Unione Europea.
I momenti chiave degli ultimi 30 anni di calcio sono stati:
- 1995: Sentenza Bosman
- 2000: apertura della Champions League alle terze e quarte classificate dei campionati maggiori
- 2009: nuova disciplina del Fair play finanziario
La retorica dominante si concentra sul Fair Play Finanziario come momento di rottura, ma fu la Bosman, in realtà, a determinare uno scenario del tutto nuovo nel quale il FFP fu solo un correttivo, mentre la Superlega potrebbe rappresentarne il competamento.
Il FFP è stato definito “il trattato di Maastricht” del calcio europeo. Io non sono d’accordo.
Se esiste l’equivalente di un trattato di Maastricht che ha unificato il calcio europeo, questo è stato la Sentenza Bosman, che ha imposto tra le altre cose la libera circolazione dei calciatori.
Esattamente come Maastricht anche la Bosman, a 25 anni dalla sua introduzione, ci consegna una Europa con molti nodi irrisolti in termini di integrazione.
E’ opinione abbastanza diffusa che il Fair play finanziario sia il principale responsabile della situazione attuale, caratterizzata da una verticizzazione delle competizioni, il famoso “vincono sempre gli stessi”, mantra calcistico dell’uomo della strada.
In realtà, il calcio, così come lo conosciamo oggi, è figlio della Legge Bosman molto più che del FFP.
La sentenza del dicembre 1995 oltre a introdurre i parametri zero ebbe anche l’effetto di liberalizzare di fatto il mercato del lavoro calcistico in tutta Europa.
L’effetto è stato quello di concentrare il talento (le qualità dei giocatori) nelle mani di pochi grandi club.
Questi stessi club, prima della Bosman, dopo i 3 stranieri erano costretti ad acquistare nei loro paesi. Subito dopo hanno avuto accesso ad un mercato più ampio e variegato e con un tasso di talento individuale più alto.
Attenzione: “tasso di talento individuale più alto” non vuol dire “Italia brutta Estero bello”, ma semplicemente che un mercato più ampio presenta sempre un tasso di talento superiore semplicemente per la sua estensione.
Per caprilo, come spesso accade in questi casi, basta pensare a quale sarebbe l’effetto contrario, ovvero la regionalizzazione del calcio.
Se per esempio Milan, Inter e Juventus potessero acquistare solo giocatori lombardi o piemontesi. Sarebbero in generale più forti o meno forti?
Credo che tutti abbiate una risposta.
Simon Kuper e Stefan Szymanski nel loro libro Calcionomia evocano la “Legge di Zipf” per spiegare che nel mercato calcistico esiste una quantità di talento che nel tempo tende a crescere meno che proporzionalmente rispetto alle risorse economiche disponibili.
Qualcosa di molto simile alla verticizzazione che caratterizza tutti i mercati liberisti del mondo.
Per questo gli americani, che di liberismo sono maestri, hanno strutturato i loro sport su base competitiva mettendo le Leghe e non i club al centro dei sistemi, potendo cosí influenzare in modo diretto la distribuzione del talento, per tutelare la competitività e combattere le concentrazioni.
Inoltre, alla Bosman non ha fatto seguito una armonizzazione coerente delle competizioni che sono rimaste sostanzialmente nazionali ma in un mercato calciatori europeizzato.
A fronte di 38 partite di campionato più le coppe domestiche, le 16 square che si qualificano agli ottavi di Champions League disputano in media 9,6 partite europee stagionali.
Il presidente della Juventus e dell’Eca, Andrea Agnelli, tempo fa ha espresso chiaramente l’obiettivo: riequilibrare gli impegni tra il calcio nazionale e quello continentale, per innalzare il livello medio delle partite (e naturalmente la loro appetibilità commerciale), con più sfide (più incerte e affascinanti) tra i top club.
Ecco quindi che il mercato europeo, un tempo molto più vario e competitivo, per numero di squadre (e di federazioni) che raggiungevano le fasi finali di Champions League, ha visto i valori verticizzarsi in maniera molto simile a quel che era successo nei decenni precedenti a livello nazionale.
Non è un caso se da quando sono state introdotte le seconde qualificate e poi le terze e quarte, solo due squadre hanno vinto la Champions League per la prima volta: Borussia Dortmund (1997) e Chelsea (2012) mentre l’ultimo paese campione per la prima volta è stato la Francia con il Marsiglia nel 1993.
Nei 15 anni tra Bvb e Chelsea il Fair play finanziario non c’era. La Bosman si.
Non tocca a me dire se questo sia un bene o un male, ognuno può avere la sua idea.
Ovviamente, per chi vuol capire ad esempio l’arretramento del calcio italiano, va detto che agli effetti della Bosman va poi aggiunto il secondo fenomeno, ovvero il cambiamento del modello di business dei club.
Il calcio italiano è stato egemone fino a che i valori investiti sul mercato dai club erano superiori a quelli dei club stranieri. Il tutto era possibile in un sistema in perdita, che con la crescita del mercato dei diritti tv ha continuato a spendere senza pensare a produrre le risorse di cui aveva bisogno.
Ma il mercato televisivo non è stato un fenomeno solo italiano.
Anche gli altri paesi hanno usufruito di crescenti disponibilità, con una differenza: mentre in Italia si è continuato a far leva sul mecenatismo (con Inter e Milan ultime a desistere, a certi livelli) i grandi club europei hanno puntato su un modello basato sui ricavi, investendo in professionalità che migliorassero l’efficienza delle entrate da matchday (stadio e merchandising) e sponsor.
E in questo caso ad eccellere sono stati quei club che hanno potuto contare su un brand di respiro europeo e che sono arrivati prima di altri.
E’ il caso, su tutti, di Barcellona, Real Madrid, Bayern Monaco, Manchester United, e di Chelsea e Liverpool, i club inglesi che hanno vinto la Champions League nell’ultimo decennio.
Il Manchester City rappresenta invece l’eccezione che conferma la regola: una proprietà dalle possibilità illimitate che è riuscita a sbrogliare le matasse burocratico finanziarie per scalare un ranking altrimenti inattaccabile. Fino alla Champions League 2023, passando per due indagini: la prima finita con una pesante multa (poi ridotta di una stagione per buona condotta), la seconda (in gran parte sugli stessi atti già giudicati) chiusa con una assoluzione al TAS (non totale, venne mantenuta una incredibile multa per “non collaborazione” da 10 milioni) che aveva tutto il sapore di una sonora vittoria.
Delle differenze tra City e PSG ho parlato qui.
Il FFP è arrivato dopo tutto questo. Introdotto nel 2009 ha iniziato ad operare dal 2011.
Se fossimo nel 2012 potremmo esultare: “Wow! Il Chelsea ha vinto la sua prima Champions, W il FFP portatore di novità”.
Ed invece certi fenomeni si possono valutare solo nel lungo periodo.
I principali detrattori del sistema del Fair play finanziario sono i tifosi interessati al successo delle proprie squadre che lamentano la non possibilità di spendere certe cifre per certi giocatori.
Ma per giudicare il FFP bisognerebbe pensare ad un sistema senza FFP, ovvero un sistema in cui comunque chi fattura 4 o 5 volte in più sarebbe ancor più avvantaggiato se non ci fossero regole.
Vero, tra le altre cose, che i prezzi dei cartellini hanno continuato a crescere. Ma i prezzi aumentano in maniera meno che proporzionale rispetto a quanto accadrebbe senza il FFP.
E cosí nell’estate 2017 Andrea Traverso dell’UEFA poteva già a buona ragione rivendicare che: “Nel 2010 il calcio perdeva 1,7 miliardi, ora siamo sotto i 300 milioni”.
Difficile dire che siamo alla sostenibilità finanziaria – Traverso enfaticamente diceva pure questo 🙂 – ma il sentiero è tracciato.