Riflessioni personali sulle parole di Giannis Antetokounmpo e sul comportamento di tifosi, giornalisti, dirigenti e campioni dello sport.
Qualche anno fa durante una summer school all’Università di Aberystwyth in Galles partecipai ad una lezione su cultura della performance e del perfezionismo.
In maniera per me sorprendente ci venne spiegato come, data l’inesistenza della perfezione umana, tutto andrebbe visto in una logica dinamica, analizzando gli avanzamenti e gli arretramenti con un approccio organico e non secondo la dicotomia perfetto / imperfetto, o vinto / perso o peggio vincente / perdente, o ancora successo / fallimento.
Il perfezionismo in questa logica viene visto come un errore, al contrario viene incentivato un atteggiamento di più ampia visione che potremmo sintetizzare così: “l’avanzamento è più importante della perfezione”.
Mi ha sempre stupito un vecchio modo di dire in voga negli Usa: “se fallisci quattro volte sei pronto per il successo”. Un approccio assai diverso dal nostro (qualcuno adduce motivazioni di ordine religioso) dove il fallimento viene vissuto – soprattutto in economia – come sentenza definitiva di incapacità.
C’è invece nella declinazione anglosassone un senso dell’esperienza, anche negativa, dell’imparare, del migliorare. Del percorso, per usare un termine sportivo.
C’è anche una capacità di analizzare i fatti in una logica non binaria ma più complessa.
Avete capito dove voglio arrivare.
Giannis Antetokounmpo, stella dei Milwaukee Bucks di NBA, rispondendo ad un giornalista di The Athletic dice che nello sport non può esistere il concetto di fallimento.
Ne è nato questo bellissimo articolo de Il Post che ha fatto un po’ il sunto del dibattito successivo.
Come spesso mi accade non riesco a schierarmi su questo tema secondo la solita logica binaria anche se condivido sostanzialmente quel che dice Antetokounmpo.
Ma proprio per la natura del suo ragionamento, che appunto chiede di inserire più complessità nelle analisi, credo sia giusto allargare il dibattito.
Esiste il fallimento nello sport? Penso di si.
Se ne può parlare? Certamente, ma forse ne stiamo abusando.
Noi giornalisti in primis, a caccia dell’evento in qualsiasi momento della stagione, del titolo eccezionale a qualsiasi costo, del sensazionalismo come metro.
Esiste il fallimento. Prendiamone atto.
Tuttavia dobbiamo anche prendere atto che non a tutte la vittorie corrisponde un fallimento.
Chi vince è sempre campione per definizione, chi perde non ha fallito per definizione.
Ritengo che si possa convenire su alcune cose.
- Il concetto di fallimento può avere una sua logica, anche nello sport, ma è un concetto di cui spesso si abusa. Lo fanno i giornalisti, che dovrebbero avere per inclinazione professionale una più ampia capacità d’analisi, lo fanno i tifosi, spesso per provocazione, a volte per rivalsa.
- L’analisi di un risultato non ha una sola dimensione. Il tifoso dice delle cose (ed ha una rilevanza), il giornalista altre (con una audience diversa). Il dirigente ne dice altre ancora (rivolte all’esterno ma soprattutto all’interno di una società sportiva) e il campione sceso in campo offre un altro punto di vista (che giocoforza è per lo più conservativo, perché trattandosi del protagonista ultimo inevitabilmente risulta più cauto per convenienza). Nel mondo dominato dalla comunicazione attraverso i social media, che danno gli stessi strumento a tutti per esprimersi, e dove spesso si perde nel messaggio l’appartenenza dell’emittente a una di queste categorie, sembra che queste diverse dimensioni si siano appiattite, ma riconoscere il contesto è fondamentale.
Lo dico con un esempio che mi pare calzante. Quando a dire che “vincere è l’unica cosa che conta” è un tifoso, va bene. Ma se questo diventa il metro di giudizio di una dirigenza, questo porta metodologicamente prima e nel merito poi (mi pare che gli juventini lo stiano verificando sulla loro pelle) a errori catastrofici e danni epocali. - Come in tutti i concetti di cui si abusa anche qui le parole rischiano di perdere il loro significato. Se in un campionato ci sono un vincitore e 19 falliti lo sport diventa un deprimente autoflagellamento.
Il discorso di Antetokounmpo del resto si appoggia proprio su questo: “me lo hai chiesto anche l’anno scorso”. Il famoso gridare al lupo al lupo. Del resto quest’anno ci sono gli estremi per dire che quello dei Bucks è un fallimento, in qualche modo, ma che senso ha farlo se si appiattisce tutto e non si vedono ad esempio l’avanzamento in regular season o il turno in meno giocato nei playoff e tutto finisce nel calderone sotto un’unica etichetta? E che senso ha l’analisi se tutto finisce nel calderone del fallimento. - Ho l’impressione che oggi come oggi a tutti noi spesso sfuggano cose importanti come il contesto, il ruolo. In nome di una finta coerenza appiattiamo tutto perdendo il senso delle cose e del loro divenire.
Da anni, e chi mi segue lo sa, valuto le squadre, gli allenatori, le stagioni non sulla base del piazzamento ma sulla base del miglioramento di anno in anno. I miei pronostici di inizio anno sono fatti su una forchetta di punti, non sul piazzamento.
Come posso bocciare un Napoli di Gattuso che manca la qualificazione Champions per un punto, subendo un gol subito all’ultima giornata e registrando l’esclusione con il maggior punteggio mai ottenuto da una quinta classificata in Serie A?
Non posso parlare di fallimento laddove vedo un apprezzabile miglioramento.
Non posso trascurare il contesto interno ed esterno che determina un risultato. Ci sei tu ed il valore che porti in campo, ci sono le scelte della proprietà, della direzione sportiva, dell’allenatore e poi degli undici in campo. Vi è una complessità che poi va misurata anche in relazione ai mezzi a disposizione dei tuoi avversari.
Mi è capitato di dirlo anche nell’ultimo Io li ho visti cosi: sogno il giorno in cui a fronte di una stagione sotto le aspettative, fosse anche una retrocessione, un club avrà la forza di fare un processo con il proprio allenatore e non al proprio allenatore.
Un club capace di confermare il proprio allenatore anche dopo una stagione fallimentare, perché capace di imparare con lo stesso protagonista diretto quali sono gli errori da superare attraverso l’esperienza del fallimento.
Utopia? Solo se si adotta una logica diversa. Solo se non si capisce la base logica del ragionamento che sto facendo.
Ho sempre detto che per me il Napoli di Sarri che chiude a 91, la Roma di Spalletti che chiude a 87 (entrambe con il record storico di punti fino ad allora) valgono uno scudetto. Che il Liverpool che per due volte perde di un punto la Premier a 92 e 97 dietro al Manchester City non possa essere considerato fallimentare.
E che senso ha, chiedo, dire che Luciano Spalletti è un grande allenatore dopo che ha vinto lo scudetto, che già se ne conosceva il valore, se per un decennio le sue stagioni sono state archiviate come fallimentari… quando invece non lo erano!
Si può fare tutta l’ironia possibile, anche sfottere il secondo arrivato, ma se fossimo in Formula Uno fareste lo stesso con qualcuno che corre con mezzo serbatoio, una ruota logora, un’automobile costruita in economia?
Anche per questo auspico sempre più uno sport che tenda ad un egualitarismo all’americana (Salary Cap) in grado di distribuire valori molto meglio di quanto non accada oggi nelle leghe europee. Mi pare che questo tipo di sistema dia al fatto tecnico una rilevanza maggiore rispetto al corollario economico, ad esempio.
Poi, e qui torno su contesto e ruolo, fino a che lo dice un tifoso al bar va beh. Ma quando è un famoso giornalista a bollare Jurgen Klopp come perdente prima di una clamorosa ed epica rimonta 3-0 0-4 che porterà ad una Champions, non possiamo tacere e accettare non tanto il giudizio (che è libero ed insindacabile) ma il metodo che porta a tale giudizio.
E tiro fuori il tema quando ci si limita a dire, di Pep Guardiola, che World Soccer Magazine in un bellissimo speciale ha definito “Genio imperfetto”, che non vince mai la Champions, senza recepire il modo incredibile ed assoluto in cui il tecnico catalano ha alzato l’indice di performance e di risultati della propria squadra in 7 anni di Premier League.
Ho l’impressione – e l’ho scritto in un tweet – che spesso il concetto di fallimento sia evocato dai mediocri per poter portare i fuoriclasse un po’ più sul proprio piano. Per poter aver qualcosa da dire di riassuntivo laddove si ignora totalmente il processo di creazione del successo.
C’è un bellissimo libro di Rasmus Ankersen (e questo video lo sintetizza benissimo) che si chiama The Gold Mine Effect e racconta un modello di individuazione del talento nello sport laddove gli altri non lo vedono. È un approccio che è stato alla base dei successi del Brentford e del Midtjylland e che secondo me ci racconta molto bene come si può vedere un successo dentro un apparente risultato poco competitivo o addirittura fallimentare.
Vi è poi un contesto culturale, sociale, sociologico.
Nel mondo esistono migliaia di medagliati d’argento e di bronzo tornati fieri del loro risultato olimpico laddove in altri sport avrebbero vissuto quel risultato come un fallimento. A volte come scherno.
E vi è anche un diverso approccio – che ho sperimentato in questi anni sulla mia pelle – tra paesi come l’Italia che vive la stagione come un’unica partita di 9 mesi con un vincitore e decine di falliti o Germania e Inghilterra (e i paesi nordici in generale) che vivono l’evento più della competizione e tirano le somme a conti fatti. Secondo me, divertendosi molto di più (lo dicono gli indici di riempimento degli stadi).
Insomma, non sarei cosí netto nel dire che il fallimento non esiste nello sport, ma al contempo auspico un mondo in cui la cultura della performance sia dominante nell’analisi su quella del perfezionismo.
Un maestro in questo era Julio Velasco con il suo “chi vince festeggia, chi perde spiega”. E impara, aggiungo io.