E allora i sauditi?

Perchè l’Arabia Saudita sta investendo nello sport e in particolare da qualche mese è entrata prepotentemente nel calcio? Appunti estivi.Ben ritrovati.

Fubolitix è andata in vacanza e riprenderà a settembre. Io stesso mi sono preso un periodo di riposo e nei prossimi giorni mi godrò il sole di Creta, trovando il tempo per viaggiare, pensare, esplorare e preparare la nuova stagione, fino alla ripresa del campionato.

O meglio, fino a settembre. Che – per noi con qualche annetto di Serie A in più sulle spalle – è quando veramente si ricomincia a giocare, anche se adesso i calendari impongono la levataccia di Ferragosto.

L’ultima stagione è stata molto difficile e impegnativa sotto molti aspetti. Però mi ha aiutato ad ampliare i miei orizzonti, a ricominciare ad interessarmi di sport a 360 gradi, ad esplorare anche discipline meno mediatiche (gli scacchi, il golf, le freccette…).

Mondi emergenti che scriveranno la storia dello sport nei decenni a venire superando alcune dinamiche da boomer livorosi tipiche soprattutto del calcio e poi a cascata degli altri sport con meno seguito.

Ho sentito il bisogno a fine maggio di interrompere le pubblicazioni, fermare la palla per ragionare sul futuro e tornare con nuove idee più avanti. Ma già non vedo l’ora di ripartire.

Schiavi degli algoritmi

Prima di entrare nel tema di questa newsletter voglio condividere con voi una riflessione di queste settimane.

Viviamo nell’epoca del contenuto.

Questo termine aleggia sulle nostre teste in questi anni e rappresenta per me il contrario del suo significato.

I cosiddetti creators fanno “i contenuti”. Quotidianamente, settimanalmente. Lavorano per lo più individualmente alla creazione di articoli, video o podcast, su un tema di loro competenza.

Nella mia testa questo termine suona come vuoto, forzato.

Sono cresciuto in un mondo in cui governavano le notizie. Non privo di contenuti, di riempitivi per così dire, ma un mondo in cui i prodotti mediatici erano una creazione collettiva in cui venivano prima di tutto i fatti e poi, appunto, le necessità del prodotto, le esigenze narrative, financo i contenuti messi lí per chiudere la pagina o il giornale al posto di uno spazio che altrimenti sarebbe rimasto bianco.

Oggi si sono ribaltate le situazioni. Se vuoi esistere su Youtube devi fare un contenuto al giorno. A prescindere che tu abbia o meno un’idea. Idem per una newsletter o un podcast. Lo impongono gli algoritmi. Pena il downgrade, l’oblio della tua audience a cui vieni esposto meno di prima o per poco.

È tutta una grande caccia all’attenzione in cui i content creators sono le prime vittime, pressate da questa schiavitù degli algoritmi, costrette a dire anche quando non sanno nulla, mentre le seconde vittime siete voi, che dovreste potervi ribellare alla qualità scadente di quanto vi viene proposto e che invece subite contenuti poveri se non totalmente vuoti, quasi passivamente, indotti per assuefazione al consumo di roba che non è nemmeno stata creata per voi ma per nutrire le vanity metrics di cui si nutrono i creators.

Non è bello o brutto. È semplicemente reale e mi pare di poter dire, incontestabile.

Il mio augurio, quest’estate è che ognuno di voi possa trovare il tempo per la riflessione, per l’approfondimento, per la comprensione e la selezione dei contenuti che quotidianamente affollano il proprio smartphone, il desktop, la casella di posta elettronica.

Un tempo utile per definire una propria dieta mediatica, per distinguere quel che ci serve e ci fa bene, tenendoci connessi con le cose del mondo, e ciò che invece è puro riempitivo, ossessione e in definitiva un possibile scarto mediatico.

Comportatevi come fareste col cibo. Da una parte il junk food, sempre più fast e sempre meno food, dall’altra i nutrienti, che vi fanno bene e vi saziano senza gonfiarvi.

Lettura consigliata: “Il delitto perfetto” di Jean Baudrillard, come la televisione ha ucciso la realtà. Un saggio attualissimo sulla produzione mediatica e la nostra percezione di quello che ci circonda. Buona estate!

L’estate dell’Arabia Saudita

Alla fine del mondiale in Qatar sulla scena calcistica internazionale è comparsa l’Arabia Saudita, paese peraltro rappresentato dall’unica squadra che nel torneo ha battuto nei 90 minuti i campioni del mondo dell’Argentina.

C’è un bel pezzo di The Athletic che tra le altre cose dice che la strategia Saudita è simile a quella dell’antica Roma “Panem et circensem” con l’aggiunta di sportwashing.

Ma c’è di più. E non mi riferisco all’editoriale di Matteo Renzi su Il Riformista, che vale poco più di un temino delle superiori, con intenti assolutori e nostalgia dei bei tempi andati.

In particolare quando dice: “Il problema è che finché le squadre di calcio conteranno sugli emendamenti dei parlamentari anziché sui diritti tv e sul miglioramento del sistema non andremo da nessuna parte”, Renzi sembra in ritardo di almeno 10 anni, per non dire 20.

Ed ovviamente omette per convenienza che quando eravamo il campionato più bello del mondo era solo perché (anche grazie alle clientele politiche) i nostri club erano quelli più disponibili a livello mondiale a perdere soldi. Virtuosi non lo siamo mai stati, siamo solo stati superati dal resto del mondo sull’unica cosa che eravamo capaci a fare: la gara a chi ce l’ha più grande.

Resta aperto il dibattito: cosa vogliono i Sauditi dal calcio? Io credo che l’acquisto dei campioni sia solo un assaggio, un segno di presenza. Mi verrebbe da dire “un avvertimento” ma il termine non mi piace perché suona come una minaccia e io onestamente non vedo l’arrivo degli arabi come una minaccia. Tutt’altro.

Vedo rischi ed opportunità, come in tutte le cose. Non una minaccia.

L’acquisto di campioni serve a dire all’Europa del calcio: anche noi – che recentemente abbiamo acquistato il Newcastle United e in un anno lo abbiamo riportato in Champions League – se vogliamo possiamo acquistare i campioni, creare squadre, giocare per competere.

Lo dice un paese il cui fuso orario è GMT+3 mentre il nostro è GMT+2 e Londra sta a GMT+1. Non un dettaglio. Non stiamo parlando di Jakarta o Pechino, dove la Champions League la devono guardare alzandosi di notte. Stiamo parlando di un paese politicamente fuori dall’Europa ma geograficamente più vicino a noi di quanto New York non lo sia da Los Angeles (1/2 fusi orari di differenza contro i 3 delle due metropoli americane).

Ci sono degli astuti uomini marketing che qualche anno fa hanno fatto i soldi con la nostalmagia. Quel sentimento revisionista che raccontava il calcio degli anni 80 e 90 in Italia come un posto bellissimo dove tutto era bello, divertente, sostenibile e in cui noi eravamo i più ricchi per merito, non perché eravamo quelli disposti a sostenere le maggiori perdite legate alle squadre di calcio.

A quel mondo si sono sostituiti quelli del calcio del popolo e poi quelli che “La vera SuperLega è la Premier League”, che nella nuova versione è: “La SuperLega la faranno nel Golfo”.

Tutti loro hanno una cosa in comune: parlano di identità dalla mattina alla sera, rivendicando un’identità perduta, perché in realtà non hanno nessuna cognizione della propria identità e ne cercano disperatamente una che non hanno mai avuto o ne hanno una che non hanno mai capito.

C’è una cosa che nessuno potrà mai rubare alla vecchia e scalcinata Europa: i suoi oltre 400 milioni di abitanti e la loro passione per le squadre delle loro piazze, che si chiamano da Lisbona a Berlino, da Parigi a Napoli, passando per Madrid, Milano, Monaco, Amsterdam, Roma.

Piazze che sono gente, passione e in termini economicisti anche mercato. Un mercato che ancora influenza molto più di quanto si pensi le cose del mondo.

Un mercato che sta imparando che le separazioni nazionali sono sempre meno la forza e sempre più il limite.

Una unione debole che si è riscoperta più solida (e solidale) quando un paese confinante (l’Ucraina) è stato attaccato (qui un podcast che vi può dire molto di più sul tema).

Un gruppo di paesi alle cui persone viene raccontato da anni che è in atto una invasione finalizzata ad appropriarsi della loro identità, per stravolgerla.

Una narrazione che tuttavia non ha riscontri reali visto che poi nel quotidiano sperimentiamo il contrario: l’europeizzazione degli immigrati e la radicalizzazione come reazione delle fasce minoritarie di popolazione che da questa inclusione si sentono escluse.

Davanti a queste dinamiche i paesi arabi (tutti, non solo i sauditi) hanno una sola opzione: acquistare pezzi di cultura europea (lo sport in primis) per barattare cosi la sopravvivenza a casa loro dei loro sistemi dittatoriali, delle loro economia imperniate sul privilegio di casta.

Non stupisce allora se da sette mesi l’Europa attende il pronunciamento della Corte di Giustizia dell’Unione Europea sul caso Superlega, sollevato da un tribunale spagnolo contro l’Uefa.

In questi sei mesi, mentre nelle federazioni europee (non solo in Italia), si consumavano le vendette contro i club ribelli, lo scontro Uefa-SuperLega ha assunto contorni più chiari ed ha visto all’orizzonte la comparsa di nuovi scenari.

Aprire il mercato sportivo oggi è un rischio, e farlo significa farlo per tutti, ritrovarsi impreparati alle lusinghe di chi a quel punto potrebbe comprarsi il sistema calcio, non solo i singoli calciatori.

Intanto è bene sapere (o informarsi su) cosa è successo nel golf, sport in cui recentemente il circuito saudita LIV si è fuso con quello americano, la PGA, proprio dopo un’operazione di mercato condotta da Liv che pare molto simile alle acquisizioni di calciatori in atto quest’estate.

Il caso golf ci insegna che se la Superlega varata nell’aprile 2021 anche grazie (si diceva) a lauti finanziamenti da banche d’affari americane, è andata in crisi come sistema in sè, l’idea di una Superlega in realtà è più viva che mai.

E potrebbe ripresentarsi presto con buona pace dei difensori dell’identità europea, favorita da investimenti se possibile ancor più facoltosi da parte degli arabi e perché no degli stessi americani, che quando vedono mercati si fanno attrarre per inclinazione genetica ancor più che per propensione agli affari.

Vi pare cosi impossibile un torneo da 10 miliardi di euro in cui alle migliori franchigie europee si possano aggiungere le grandi città del Golfo? Un torneo in stile NBA con Milano, Madrid, Lisbona, Amsterdam, Berlino più Doha, Ryiad, Dubai.

Fare una Superlega a casa loro per vedersela sul divano di uno stadio da 100 persone con quattro amici sceicchi facendo pagare prezzi fuori mercato a 5 anziani del paese è qualcosa che somiglia più al calcio dei campanili italiano delle serie minori dove i paesini senza tifosi vogliono andare in Serie A grazie ai soldi del feudatario locale. Gli sceicchi, fidatevi, sono più lungimiranti ed hanno ambizioni internazionali. Vogliono governare i sistemi, non i club.

Non è un caso se i sauditi hanno fatto questa operazione su 4 diversi club, non su uno egemone. Hanno un’idea di spettacolo e competizione molto più avanzata di quella di tanti padroncini italiani.

Vogliono governare a modo loro. Perché accontentarsi di vincere (pur bello, sia chiaro) quando si può dominare?

Buona estate. Ci sentiamo a settembre.

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