Carlo Tavecchio, parole opere e omissioni

L’ex presidente Figc con le sue astuzie e le sue contraddizioni ha incarnato la politica calcistica italiana degli ultimi 30 anni. Un politico, prima che se stesso, incarna l’ambiente che rappresenta.

Una settimana fa ci ha lasciato l’ex presidente Figc, Carlo Tavecchio.

Il dibattito social che ne è scaturito sostanzialmente si divide in due: il semplice tifoso é spietato nei suoi confronti, chi lo ha conosciuto tende a minimizzare e salvarne invece l’attivismo politico (e i non pochi successi reali).

Sono stati scritti tanti tweet imbarazzanti sia in un senso che nell’altro, ma per raccontare con un minimo di profondità un personaggio di questa rilevanza nella politica sportiva italiana degli ultimi 30 anni e non solo, i tweet sono semplicemente inadeguati.

Ho avuto l’occasione di conoscerlo, parlargli e intervistarlo più volte quando era presidente LND ed io scrivevo di calcio dilettantistico su Bresciaoggi.

Ex dipendente di banca, Tavecchio si spiega attraverso le sue note biografiche. Sindaco DC di Ponte Lambro dal 1976 al 1995, uomo della Prima Repubblica politica e della Seconda Repubblica sportiva (quella iniziata dopo i Mondiali del 1990). Aveva ricevuto condanne per reati economico-amministrativi (1970, 1994, 1996, 1998) e successivamente ottenuto riabilitazione penale, beneficio che ripristina la capacità giuridica di un individuo sulla base di un accertato ravvedimento.

Ha fondato (non un dettaglio) e guidato per 15 anni la squadra del suo paesino (4 mila abitanti) portandola in Prima Categoria. Senza strafare insomma, basti dire che con gli stessi abitanti il suo successore é andato in Serie B. Aveva più a cuore la politica sportiva: presidente LND dal 1999 al 2014 e poi presidente Figc dopo esserne stato vice.

È morto a 79 anni da presidente in carica del Comitato Regionale Lombardia della Figc.

Morto da presidente in carica, non un caso: era tornato nel suo feudo seguendo la filosofia di Ciriaco De Mita (anche lui DC, anche lui guardacaso morto in carica il 26 maggio 2022, da Sindaco di Nusco, suo paesino d’origine):

“Nei momenti di difficoltà, ritirati dove sei più forte.
Se è la tua regione, fai il leader regionale. Se è la tua città, fai il sindaco.
Se non sei forte da nessuna parte, torna a casa da tua moglie. E aspetta”.

Il politico prima di incarnare sé stesso, incarna l’ambiente che rappresenta. Tavecchio non otteneva nomine (che dipendono dal rapporto diretto con una persona) ma cariche elettive (che prevedono una elezione, un consenso assembleare). Si presentava, raccoglieva i voti, veniva eletto.

Vi sono due dimensioni di Carlo Tavecchio da identificare e contestualizzare. Quella comunicativa e quella politica.

Sul piano comunicativo soprattutto nel triennio da presidente federale, le sue dichiarazioni, che suonavano di volta in volta come razziste, omofobe o misogine, erano all’ordine del giorno.

Il suo modo di esprimersi, spesso imbarazzante, divenne etichetta della sua immagine pubblica.

Ne disse talmente tante che nel calderone di quanto attribuitogli in questi giorni sui social è finita anche una frase sul calcio femminile (“basta dare soldi a 4 lesbiche”) che non venne pronunciata da lui. Ma dal suo successore.

Tavecchio, nato nel 1943, era un uomo del suo tempo che si esprimeva come fanno alcuni uomini del suo tempo. Fortunatamente non tutti.

Il problema (1) semmai è chiedere ad un uomo di 70 anni (sua età al momento dell’elezione in Ficg) di cui si conosce lo stile comunicativo conclamato, di essere rappresentativo della complessità dello sport di tutti, il più popolare e seguito in Italia, in un contesto che va ben oltre la pura dimensione sportiva. Di diventare politicamente corretto da un giorno all’altro.

Il problema (2), che poi non é un problema ma la realtà del nostro calcio, é che intorno a lui vi era, nonostante questo, un consenso maggioritario che lo portava ad essere eletto in cariche importanti.

In certi momenti oltre al suo imbarazzo non avrebbe guastato quello di chi lo votava, sosteneva e continuava a farlo.

Prendete la celebre frase su Optí Pobà.

Tavecchio la pronuncia il 25 luglio 2014, da candidato alla presidenza federale. Dopo 3 giorni la Figc apre un’indagine. L’11 agosto diventa presidente, il sostegno alla sua candidatura rimane immutato (sconfitto Demetrio Albertini). Il 25 agosto la Figc archivia l’indagine. Il 6 ottobre arriva invece la condanna Uefa (presidente Michel Platini) a 6 mesi di sospensione, estesa il 5 novembre dalla Fifa (presidente Joseph Blatter) a livello mondiale.

Tra chi si spese in sua difesa ci fu l’attuale ministro dello Sport, Andrea Abodi (ai tempi presidente della Serie B), che il 6 marzo 2017 si sarebbe poi candidato contro di lui venendo sconfitto nella corsa alla stessa presidenza Figc.

A volte di un candidato si difendono più le debolezze che i punti di forza.

Sul piano politico. Quando divenne presidente Figc l’Italia aveva zero posizioni negli organismi Uefa e Fifa. La sua attività diplomatica (di concerto con altre componenti) portò Michele Uva nell’esecutivo della prima (presidente Aleksander Ceferin), e Evelina Christillin nel Consiglio della seconda (presidente Gianni Infantino).

L’uomo navigava, aveva fiuto (come ricorda anche la Gazzetta): fu tra i primi a smarcarsi da Blatter, puntò su Ceferin alla Uefa e su Infantino alla Fifa, incassando i già citati crediti politici in termini di nomine e rappresentanza italiana.

Rimise l’Italia dentro la geopolitica del pallone.

Fu promotore attivo e anticipatore del Var, proponendo l’Italia per una immediata sperimentazione. In un calcio irriformabile Tavecchio ha ottenuto significativi risultati, fu lui a spingere i club storici a investire nel calcio femminile.

In nazionale – infine – ebbe l’intuizione Conte e fece l’errore Ventura.

È significativo il fatto che, alla fine, le sue (uniche) dimissioni, siano avvenute per fatti di campo, i più indipendenti da quella che era la sua figura. Perché sul piano operativo la sua presidenza fu un successo – a maggior ragione se paragonata con predecssori e successori – e il vuoto apertosi dopo il suo addio, con relativo commissariamento – a dimostrarne la posizione ben salda al comando – ne fu in parte la dimostrazione.

Breve inciso personale: personalmente continuo a considerare assurde le dimissioni di un presidente federale per fatti di campo, una pratica in voga solo in Italia. Vale per il suo predecessore Giancarlo Abete, pure lui dimissionario dopo l’eliminazione ai gironi in Brasile, e per Gabriele Gravina, che invece é rimasto giustamente in sella.

Tavecchio, con le sue astuzie e le sue contraddizioni, piaccia o non piaccia, nel bene e nel male, ha incarnato molto di quello che sono la politica e la politica sportiva, in particolare calcistica, in Italia.

Quelli come lui sono la sommatoria di quello che eravamo e che siamo. Parafrasando un antico aforisma italico: “Più del Tavecchio in sé, temo il Tavecchio in me”… in tutti noi.

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