Fenomenologia di Lele Adani

Da calciatore capì che doveva applicarsi più degli altri per emergere. Da opinionista detta l’agenda del dibattito calcistico in Italia grazie al suo approccio divisivo. Va sempre fatta la tara a ciò che dice, ma è il più bravo perché si applica e funziona.

Daniele “Lele” Adani in una lunga diretta su Instagram ha raccontato la fine della Bobo Tv (la potete ascoltare qui, dura 54 minuti). Poco prima aveva scritto un comunicato.

L’intervento è stato più un mandare messaggi trasversali a Christian Vieri che spiegare realmente quello che è successo. L’impressione è che una spaccatura sia avvenuta sulla opportunità di partecipare ai format della Radio della Serie A.

Adani per un’ora ha arringato la sua community, i suoi follower, con i consueti toni messianici e fideisti, da sacerdote del calcio, ovvero l’ingrediente che lo ha reso opinionista calcistico numero uno in Italia.

Piaccia o meno, Adani è il migliore perché è il più bravo – anche dialetticamente – se paragonato alla pletora dei suoi colleghi/ex colleghi.

Il personaggio funziona soprattutto nella continua ricerca dell’iperbole, dell’esagerazione narrativa, l’arte della supercazzola dice qualcuno. Si nutre della divisione tra chi la pensa come lui e fa parte della sua chiesa, e chi invece si pone al di fuori.
In un paese cattolico per DNA questo funziona.

Può dire di avere la maglia del River tatuata addosso senza sentirsi ridicolo.

De Rossi in una live gli diede una lezione di vita, non compresa dal diretto interessato, spiegandogli come da romano e romanista si sentisse a disagio a raccontare il derby col Boca con i toni tipici dell’adanismo, perché percepiva la differenza di DNA con gli argentini, proprio per averlo vissuto ad un livello diverso da quello tutt’al più turistico di Adani, ovvero con una delle due maglie addosso, ma di non averlo nel sangue, nel suo atto di nascita, e quindi – per rispetto a chi invece quel DNA lo possiede – di sentirsi a disagio con certi toni.

In un mondo di ex calciatori, che spesso si improvvisano pensando di essere capaci di comunicare in quanto bravi coi piedi, e poco inclini a cimentarsi e imparare, lui è uno che studia, e lo fa per davvero, traducendo il tanto calcio che guarda nella narrazione volutamente divisiva che lo caratterizza.

Gli si farebbe un torto a non riconoscergli un qualcosa di voluto nel ruolo che oggi Lele Adani ha nel dibattito, pensare che tutto sia frutto del caso sarebbe fuori luogo, quasi irrispettoso.

Adani non è Antonio Cassano, che nelle situazioni ci si trova senza capirle e le affronta d’istinto e senza filtri, dicendo cose che un qualsiasi essere umano troverebbe imbarazzanti (una su tutte ripetuta alla noia, che suscita anche una certa tenerezza ammantata di pietà umana: “i miei figli mi comandano”).

Per essere Adani servono presenza, conoscenza, applicazione, struttura, lo dice la sua intera parabola umana. E gli si farebbe un torto a non riconoscergli una grandissima capacità di interpretarle e realizzarle, queste situazioni.

Non è un caso – e qui parliamo soprattutto di competenza da osservatore – se Pep Guardiola ha un rapporto diretto con lui (certificato, non per sentito dire) e delle sue opinioni si fida.

Può piacere o meno, ma da qualche anno Lele Adani spesso detta indirettamente l’agenda (lo ha detto anche nella sua lunga live, qui senza alcuna esagerazione) del dibattito calcistico anche ai a molti media.

Un esempio? C’è molto di Adani nel dibattito belgiuoco – gioco all’italiana, che è antico come il mondo del calcio raccontato in Italia: venne inaugurato da giornalisti come Gianni Brera e Gino Palumbo, ma negli ultimi anni è stato da lui plasmato.

Un dibattito a volte stucchevole, ma inclusivo perché basilare laddove permette a tutti di dire la loro, di dire qualcosa, ma soprattutto di porsi ogni volta pro o contro Adani.

Un’operazione che esplose in mano ad Adani con i suoi pro e i suoi contro, nel celebre dibattito con Allegri. Ma che poi venne cavalcata dal diretto interessato secondo gli schemi dogmatici di cui parlavo prima e che gli sono propri.

Da calciatore lo ricordo discreto difensore del mio Brescia, in fuga dalla società insieme a Roberto Guana (qui potete risalire a quanto accadde nel 2005), autore di un comunicato d’addio che ha lo stesso stile narrativo di quello pubblicato in questi giorni.

L’Adani di ieri è l’Adani di oggi nei toni, nella percezione di sé, nella narrazione che fa dei rapporti umani.

Lele Adani è stato un calciatore che – come lui stesso racconta – fin da bambino ha capito che se voleva arrivare doveva applicarsi più e meglio degli altri, per starci dentro.

E quando Roberto Baggio si prende gioco di lui dicendo che non faceva due palleggi di fila, tutti dovremmo sentirci un po’ Lele Adani e difendere il suo diritto di essere un secchione dentro e fuori dal campo. Di poter esserci grazie al lavoro, allo studio e alla voglia, laddove dove altri stanno solo in virtù di un talento innato.

A meno che non siate nati baciati dal talento, non potete non apprezzare il percorso (per usare un termine adanista) di quest’uomo che come tutti i calciatori ha dovuto reinventarsi ad un certo punto della sua vita, e che una volta reinventatosi è diventato il numero uno in quello che fa.

Non si tratta di essere d’accordo o meno con lui (io ad esempio vedo il calcio in modo diverso e trovo molti suoi toni assurdi, toni che ti fanno dire “sono in imbarazzo ad ascoltarti”), ma bisogna prendere atto del fatto che la sua figura riempie lo schermo più di qualsiasi altro suo ex collega riconvertitosi ai media.

Dopo di che bisogna setacciarlo. Come si dice dalle mie parti “bisogna fargli la tara”.

Adani è convinto che Instagram si sia adeguato alla Bobo Tv (avendo aggiunto piú finestre alle live), che Twitch fosse una piattaforma solo per gamer che ha svoltato grazie ai 4 moschettieri della pedata italica. E lo dice senza quel senso del ridicolo che avrebbe preso la maggior parte di noi.

“È stato ucciso lo spirito della Bobo Tv, le persone non vanno prese in giro”. Dice lui, che riesce a celebrare al contempo il guardiolismo e l’epica della garra charrua, esercitando un’arte della supercazzola che si fa beffa della storia.

Del resto: la famosa garra – scrive infatti Francesco Scabar in un pezzo di un paio d’anni fa – è sempre stata associata non alle edizioni della Celeste trionfanti negli Anni Venti o negli Anni Cinquanta bensì a quelle alquanto mediocri degli Anni Settanta-Ottanta dove l’Uruguay pallonaro era semplice sinonimo di anticalcio.

Quando si racconta tende a perdere il conto: “ai mondiali avevo 4 attività al giorno, la Rai e la Bobo Tv“.  Ne crescono due Lele, che faccio lascio?

Ci sono tanti tratti del suo personaggio che sono trasposti dal campo allo schermo e che possono essere individuati chiaramente.

Innanzitutto la necessità di un nemico esterno, figura antropologica che, se per una quindicina d’anni nella tua vita hai giocato a calcio scontrandoti ogni domenica con un avversario diverso, diventa quasi necessaria alla tua esistenza.

Non puoi concepire di non avere un avversario nella definizione del perimetro di quello che fai. Ti nutri di sfide, hai bisogno di scontro. Uno antagonismo costante che una volta finito sul campo diventa dialettico.

Adani – forse capendo i suoi stessi eccessi – si difende con un po’ di qualunquismo (“il calcio è bello perchè c’è il contraddittorio e potete dirmi che sbaglio”) ed evoca i “poteri forti” contro di lui. Sa bene che quando si trascende e lo scontro viene narrato come divisione tra puri e servili la dialettica è finita, non lascia spazio ad alcuna obiezione.

Lo sa, per questo porta il dialogo su quel piano: è un guerriero e dentro questo schema lui prolifera.

Al centro c’è il tema dell’amicizia, che in realtà come si evince in tutta la narrazione, analizzandone i toni, può essere chiamata tale solo se si confonde l’amicizia con il cameratismo da spogliatoio.

Evoca spesso il servilismo, ma tutti abbiamo negli occhi e nelle orecchie i salamelecchi dell’intervista a Pep Guardiola, le risate forzate, preventive, le sganasciate ingiustificate che ci hanno ricordato certi servilismi di età adolescenziale nei confronti del leader del gruppo a cui si deve ossequio, ed onestamente non so racchiudere il rapporto umano visto in quell’ora di comunicazione arguta, capace di pescare nel già detto e già sentito, ma eccezionale perché ripetuto da Guardiola in prima persona, in un contesto migliore che non quello del servilismo interessato.

Di più, sono convinto che ad una settimana dalla finale di Champions League il tecnico del Manchester City abbia partecipato proprio perché senza neanche chiederlo sapeva che quello era ció che avrebbe trovato, senza domande scomode, pura chiacchiera con una platea di ex in adorazione.

Nulla veniva preparato alla Bobo Tv proprio perché quel cameratismo da spogliatoio era la garanzia per tutti che non ci sarebbero stati imprevisti o temi scomodi, in un dialogo tra pari che avveniva con dei codici di spogliatoio non scritti ma noti a tutti, che hanno segnato la vita dei protagonisti anche dopo il calcio.

Un cameratismo che, sia chiaro, è di gran successo mediatico. Perché, diciamolo una volta per tutte: il successo della Bobo Tv era legato al fatto che i quattro stanno in video senza dover essere presentati, sono volti noti per i quali parlano le centinaia di presenze in Serie A. Riempirebbero lo schermo anche se recitassero ricette vegane, e noi staremmo qui a farci su un’analisi.

Il mix comunicativo era importante e ben congegnato. I contenuti sono il pane quotidiano di Adani (che da quando era difensore sa che per emergere deve fare qualcosa più della media in termini di applicazione) ma non degli altri tre.

Di sicuro non dei due pugliesi, arrivati al calcio grazie al talento innato senza bisogno di essere coltivato (ed infatti non coltivato nel tempo, con esiti di carriera proporzionali allo stesso talento originario).

Con Christian Vieri il rapporto è diverso. Bobo è uno che ha attraversato l’Oceano Pacifico per diventare calciatore in Italia (lo raccontò bene durante la pandemia proprio in una delle prime live con Adani). È uno che ha il senso dell’investimento, in primis su se stesso, ma in modo diverso rispetto ad Adani.

Ma Vieri non ha il suo stesso spirito di squadra. Lo dice la sua carriera (in particolare lo dicono le sue espressioni quando gli si parla di Juventus). Ci prova, il buon Lele, a trovare un alfabeto comune, ma i due vengono da due pianeti agli antipodi che si sono incrociati solo nel cameratismo di cui sopra.

Ed è lì che – a quanto pare – è avvenuto il corto circuito. Semplicemente perché, alla lunga, Bobo Vieri è uno che ha bisogno di cambiare spogliatoio.

Puoi girarla come vuoi, ma quando chiami una cosa col nome di una persona il rapporto paritario non è paritario già per DNA e la riduzione a “collaboratore” con i ringraziamenti di sorta è solamente la certificazione di qualcosa che sta nei fatti sin dalla genesi del progetto.

Detto questo, a reggere l’impalcatura era la fenomenologia di Lele Adani, che a differenza di Christian Vieri, faceva reparto da solo in campo e sa fare reparto da solo sullo schermo. E questo gli tornerà utile nei prossimi progetti.

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