L’accordo televisivo del 2016 per i diritti tv domestici della Premier League ha segnato uno spartiacque economico nella storia del calcio europeo. Ma l’egemonia viene da molto lontano, nel paese che ha inventato il calcio moderno.
Diliding Dilidong…
All’inizio del 2016 la Premier League annunciò un accordo clamoroso per il rinnovo del triennio di diritti tv fino al 2019: avrebbe incassato il 71% in più rispetto all’accordo precedente.
Un fiume di soldi mai visto prima: 7 miliardi di euro in un triennio per trasmettere le partite sul territorio britannico (che comprende Inghilterra, Galles, Scozia e Nord Irlanda).
A questi soldi, circa 2,33 miliardi di euro l’anno, si sarebbe poi aggiunto un ulteriore miliardo legato ai diritti internazionali.
Fu il campanello d’allarme per tutti gli altri campionati nazionali maggiori (Italia e Spagna su tutti) che in precedenza avevano grosso modo entrate simili, ma che da quel momento si vedevano nettamente surclassare dagli inglesi.
Erano i giorni del Leicester miracoloso, guidato da Claudio Ranieri ad un titolo storico, di cui ha scritto tra gli altri Davide Cappelli, attuale digital editor della Juventus (e volto Twitch del club) negli anni in cui era un giovane studente di Economia a Manchester.
Ma come è stato possibile?
Possiamo ricondurre le ragioni a due ambiti: il primo di ordine storico, il secondo economico-strategico.
Il calcio dei mastri birrai
Fin dagli albori il calcio inglese si è caratterizzato come fenomeno strettamente legato alle dinamiche economiche, ovvero ai business cittadini.
Nella serie “The English Game” si racconta bene come nel Nord Ovest inglese, area produttiva caratterizzata da grandi fabbriche che impiegavano le masse lavoratrici sin dalla prima rivoluzione industriale, azienda e club di calcio fossero strettamente legate.
Qui nacque il professionismo, legato – non solo per la serie Netflix – alla figura di Fergus Suter, considerato il primo calciatore a tempo pieno della storia.
Ma il fenomeno che maggiormente caratterizza la crescita del gioco è certamente legato all’industria della birra.
A fine ‘800, preoccupati dal fatto che sempre più clienti preferivano seguire le partite di calcio il sabato pomeriggio, i proprietari dei pub (che spesso erano anche produttori di birra e proprietari terrieri) iniziarono ad affittare i campi ai club di calcio.
Capirono, in altre parole, che lo stadio era diventato il pub più grande della città, e poterne influenzare le scelte dava loro una posizione di dominio sul mercato della produzione e vendita di birra.
I calciatori, in anni in cui ancora non esisteva il professionismo, erano spesso assunti come manager dei locali, diventando delle specie di testimonial ante litteram, perché i tifosi frequentavano i pub anche per entrare in contatto con i loro beniamini del sabato pomeriggio.
Tra le storie più significative ricordiamo quella del Liverpool, il cui primo presidente John Houlding (uomo d’affari con ingenti interessi nel mondo della birra), fondò la società dopo una scissione con l’Everton a causa della scelta del campo su cui giocare (Anfield, di sua proprietà, divenne subito patrimonio del neonato Liverpool FC).
Ma lo stesso Manchester United, che nacque dalla fusione di diversi club – il maggiore dei quali era il Newton Heath di Moston, i verdeoro a cui si rifanno oggi i tifosi dissidenti, che vestendone i colori rivendicano l’appartenenza ad un calcio a loro dire più puro.
John Henry Davies, che dello United fu il primo presidente, era come Houlding un imprenditore del settore della birra, che aveva visto nel calcio un affarone, e che non a caso scelse il nome United (gli altri soci erano combattuti tra Manchester Central e Manchester Celtic): voleva cosí rivendicare la differenza dal Liverpool, nato per scissione, in anni di forte rivalità tra le borghesie delle due città limitrofe.
La storia ci dice come il calcio inglese abbia avuto fin dalle sue origini una natura B2C, per usare un termine moderno: business to consumer.
I presidenti – che a differenza di quelli italiani erano i rappresentanti eletti di un club formato anche da altri ricchi signori come loro – non erano disposti a sperperare denaro per il calcio, ma vedevano in esso un veicolo di ricavi da stadio, principalmente da biglietteria e vendita di cibo e bevande ai tifosi.
Non è un caso se firmando un articolo, sul celebre Charles Buchan Football Monthly (il più letto magazine di calcio internazionale di quei tempi, che ebbi la fortuna di scovare in una libreria di Aberystwyth in Galles, anni fa, ma che voi potete facilmente ordinare online), nel febbraio 1959 il gallese John Charles – ex Juventus – parlava con stupore della sua esperienza nella Serie A italiana.
Spiegava Charles:
il minimo salariale in Italia corrisponde al massimo permesso in Inghilterra che corrisponde a 20 sterline.
Ed ancora, Charles si stupiva del fatto che i club non avessero stadio di proprietà e si allenassero altrove, non sul proprio campo (precisando “solo tre volte l’anno”).
Nelle sue parole stavano già tutte le differenze attuali tra due mondi agli antipodi: i club inglesi orientati il più possibile ad un business razionale, e quindi attenti a fornire un servizio ai tifosi nel proprio stadio di proprietà.
I club italiani gestiti monocraticamente dai presidenti, il cui modello di business guardava soprattutto alle plusvalenze da calciomercato ed a interessi secondari (personali, politici, aziendali).
La rivoluzione della Premier League
Quando a fine anni ‘80 i club di First Division, vedendo con interesse la possibilità di nuove fonti d’entrata attraverso la vendita dei diritti tv, decisero di fondare la Premier League (con l’intento di gestire i soldi senza dover passare dalla burocrazia federale della Football Association), lo fecero con questo background.
Ma i club ponderarono sempre ogni passaggio con grande circospezione.
Mai avrebbero voluto mettere in crisi il modello storico che garantiva ai club ricchi ricavi da stadio grazie alla biglietteria ed al cibo consumato dentro gli stadi di proprietà.
E qui bisogna ricordare un fattore determinante.
Fino all’inizio della pandemia da Covid-19 la Premier League trasmetteva solo il 50% delle proprie partite in televisione sul territorio britannico.
Gli accordi del 2016, di cui si è detto prima, prevedevano solo il 44% delle partite in diretta sul territorio britannico.
Fuor di metafora: la famosa rivendicazione dei tifosi italiani che vogliono “vedere tutte le partite della loro squadra in tv” in Inghilterra (con la sola eccezione del periodo Covid) NON È POSSIBILE.
A differenza di quanto accaduto in Italia, dove i club immediatamente decisero di trasmettere il 100% delle partite (a partire dalla stagione 1996-97), ovvero tutte, in Inghilterra si mantenne un atteggiamento più graduale:
- in ossequio ad una legge nazionale nessuna gara può essere trasmessa dalle 15 alle 17.15 del sabato (tutelando cosí gli incassi da stadio nell’orari più tradizionale per il calcio inglese)
- non tutte le partite sarebbero state trasmesse in diretta
Le cose sono cambiate con la pandemia, ma solo perchè ci sarebbe stato – con gli stadi vuoti – il paradosso di partite senza pubblico che nessuno avrebbe di fatto visto.
La vera preoccupazione dei clubs, pur consci delle cifre che avrebbero incassato era quella di disaffezionare i tifosi allo stadio.
Un dibattito, quello dello svuotamento degli impianti, che di tanto in tanto torna a fare capolino.
Sempre Charles Buchan nel suo Football Monthly a inizio anni ’50 firmò un articolo in cui addirittura si disse preoccupato che questo potesse accadere in conseguenza della possibilità delle radio di dare in diretta le informazioni sui gol.
A dimostrazione di una grandissima sensibilità generale sul tema stadio e sull’esperienza diretta.
Un calcio B2C
La nuova Premier League autonoma dalla Federazione insieme alle televisioni e i loro soldi, ma anche la possibilità di mostrare a tutto il mondo le sponsorizzazioni a sostegno dei club, sono state un grande volano per la crescita economica del calcio inglese.
Attenzione anche ad un altro aspetto. Il non aver venduto tutte le partite ha fatto aumentare il valore delle stesse!
Prendiamo un Lazio – Fiorentina di una giornata qualsiasi di campionato. Quando questa partita (a metà anni 90) era l’unica trasmessa la domenica sera da Tele+ gli ascolti erano molto alti. Oggi che magari finisce alla domenica in contemporanea con altre 4 il valore è inferiore.
Questo perchè erroneamente si pensa che le tv abbiano bisogno di tante partite. In realtà non è cosi: le tv hanno bisogno di TANTI EVENTI. Come nel mercato dell’arte la rarità paga molto più della produzione seriale.
Nei miei anni a Calcioefinanza.it mi ha sempre divertito analizzare il fatto che ci sono un sacco di partite di Serie A che vengono viste da meno di 20 mila persone in tv. In pratica un puro costo per le tv.
Torniamo in Inghilterra.
Si può dire, a buona ragione, che la grande attenzione dei pionieri a fare soldi attraverso lo stadio, e quindi ad investire in un business certosino molto orientato al consumatore, sia stata un elemento fondamentale per la crescita del calcio.
Il calcio dagli anni 2000 in poi è stato descritto da molti come “il calcio dei fatturati”.
Ed a questo gli inglesi sono arrivati con una mentalità ed una struttura già orientate nel modo corretto.
Vi è infatti un errore che viene commesso quando si analizza il divario esistente.
Si tende a pensare che la competitività sia data dalla più equa distribuzione dei diritti tv.
Sicuramente, ma non solo.
L’avere stadi di proprietà, sin dagli albori, l’essere molto attenti al servizio dei clienti tifosi dentro impianti sempre più confortevoli, è stato un elemento di base sul quale gli sponsor e le televisioni hanno investito volentieri, molto più che in Italia.
La fine dell’hooliganismo – arrivato all’apice a fine anni ‘80 e annacquatosi nel corso degli anni ’90 fino a non rappresentare più un tema da prime pagine – è stato poi un ulteriore elemento di vantaggio, da non dimenticare.
E cosí, anche se l‘ultimo accordo televisivo (2019-2022) non ha visto ulteriormente crescere il valore della Premier League, il campionato inglese sembra aver scavato un solco incolmabile rispetto ai principali competitor: Serie A, Liga e Bundesliga.
Non sappiamo quale sarà il futuro dei vari campionati, ma pare assai difficile che un business fondato su basi estremamente razionali come quello su cui si basa la Premier League sia nel breve e medio periodo difficilmente attaccabile.
Questo, possiamo dirlo, a differenza del primato del calcio italiano che tra gli anni ‘80 e ’90 basava la propria forza su una disponibilità alla spesa decisamente irrazionale.
E che infatti con la comparsa delle TV ha finito per sperperare il vantaggio tecnico acquisito, andando a schiantarsi ad inizio 2000 quando delle sette sorelle solo Juventus, Milan e Inter sono rimaste in piedi (pur con precondizioni assai diverse).